La Chiesa Santa Maria di Portonovo

STORIA DEL MONUMENTO

All’estremità meridionale della baia di Portonovo, protesa sul mare sopra  il piede di un’antica frana, è situata la chiesa, unico elemento sopravvissuto di un monastero eretto presumibilmente alla metà dell’ XI secolo, come ricordato dalla storiografia locale, che attesta l’esistenza di un documento, una pergamena conservata nell’Archivio capitolino della Cattedrale di Ancona, andata perduta, di cui non è comprovata l’autenticità datata al 1034 e riferibile alla fondazione di una chiesa di Santa Maria in novo Portu officiata da monaci benedettini.

In un altro documento si fa riferimento a legami esistenti tra il centro ecclesiale e la figura di San Gaudenzio, un vescovo dalmata, fuggito dalla sua patria, approdato ad Ancona e infine a Portonovo, dove sarebbe morto negli anni tra il 1042 e il 1048, legato da amicizia a San Pier Damiani, un monaco ravennate divenuto nel 1057 abate del cenobio di Fonte Avellana, una chiesa di una congregazione riformata da papa Gregorio VII, che, per  la sua  navata centrale voltata, può essere considerata stilisticamente erede di Santa Maria di  Portonovo, ritenuta in passato, per la sua posizione sulle rive del mare Adriatico, una probabile dimora del Santo, come ricordato nel XXI canto del Paradiso di Dante,  vv. 121 – 123.

Pur non esistendo documenti certi riferibili all’edificio monastico, alla metà del XII secolo il monastero doveva aver raggiunto una notevole importanza, attestata dai privilegi ottenuti sia dall’autorità papale (Alessandro III nel 1177) sia dall’ imperatore (Enrico VI nel 1186).
Nel 1320, il 17 gennaio, il vescovo Nicola degli Ungari redasse un atto con cui trasferì ad Ancona, nella chiesa di S. Martino, i monaci benedettini: fu così abbandonato il sito, minacciato da frane e terremoti, che avrebbero provocato la distruzione del chiostro e relativo monastero, eccezionalmente collocato a Nord, dove attualmente è la scarpata a mare, ma anche risultato troppo vulnerabile per la sua posizione isolata in un’area boscosa, spesso soggetta alle incursioni dei pirati.
Alla metà del Quattrocento la chiesa, sotto la tutela del capitolo della cattedrale di Ancona, ospitava solo qualche eremita ed era officiata da un cappellano in occasione della festa dell’Assunta.
Nel 1518 si ricorda un’incursione turca, che arrecò ulteriori danni al complesso mentre nel 1663 le fonti attestano la sola presenza di mura diroccate.
Nel 1769 il cardinale Buffalini dichiarò che il monastero, con il suo campanile, era andato in rovina.
Nel 1808, quando Ancona fu annessa da Napoleone al Regno d’Italia, a seguito di un tentativo di sbarco perpetrato dagli Inglesi, alleati degli Austriaci, entrambi avversari dei Francesi, si stabilì di lasciare un contingente di 600 uomini a presidio della baia. Nell’occasione si utilizzò per erigere il “fortino napoleonico”, il materiale di risulta, proveniente dall’area dell’abbazia, presumibilmente quel che restava dell’antico monastero di Santa Maria, distruggendo così le ultime testimonianze del cenobio.
Nel 1837, nell’età della Restaurazione, il bene tornò in possesso della Chiesa e fu parzialmente restaurato da un eremita, l’abate Casaretto.

Visitando questa Chiesa si può provare la sensazione di trovarsi al tempo in cui c’erano i monaci benedettini

Dopo l’Unità esso fu acquisito dallo Stato italiano che ne concesse l’utilizzo per il ricovero delle pecore. Soltanto nel 1894 l’architetto G. Sacconi, allora Soprintendente ai Monumenti di Umbria e Marche, attuò un primo restauro, eliminando la casa del custode sul lato nord e le superfetazioni, consolidando le strutture e il muraglione di contenimento a mare. Alla metà del Novecento furono eseguiti nuovi interventi di consolidamento, si aggiunse un campanile a vela, applicando il metodo del restauro interpretativo.

Nel 2002 è stata effettuata una ricognizione archeologica che ha riportato in luce nell’area a nord-est rispetto alla chiesa sia tracce della fondazione di un elemento murario, presumibilmente una torre campanaria, sia i piani di calpestio e strutture edilizie pertinenti a più fasi di vita del complesso, a conferma dell’ipotesi di ubicazione del chiostro proprio a ridosso della costa. Nella medesima occasione nell’area meridionale si sono individuate fosse terragne o rivestite di blocchi in pietra calcarea, coperte da tegole e coppi, pertinenti all’area sepolcrale. Attualmente la chiesa dipende dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo delle Marche ed è in consegna alla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio delle Marche.

DESCRIZIONE DEL MONUMENTO

S. Maria di Portonovo, l’unica sopravvivenza di un complesso monastico realizzato alla metà dell’XI secolo, presenta un impianto originale che anticipa gli elementi caratterizzanti le chiese romaniche. L’accesso al monastero, per i fedeli, si verificava attraverso un vestibolo tripartito rivolto a ovest. Entrati nella chiesa vera e propria si notano altri due ingressi: l’uno nella navata sinistra, al centro del lato Nord, con triplice strombo e cornice all’imposta dell’archivolto, era il portale principale che metteva in comunicazione la chiesa con il chiostro, di cui restano soltanto tracce di fondazione e piani di calpestio a ridosso della costa. Presso l’abside della navata centrale, a sinistra è un altro portale presumibilmente realizzato per consentire un accesso autonomo al celebrante. L’edificio di culto, costituito da piccoli blocchi in pietra calcarea, cotto per le pavimentazioni e per le coperture, con uno zoccolo in arenaria nella parte orientale e meridionale, non tenendo conto del vestibolo cronologicamente di poco posteriore, misura 17,85 m di lunghezza e 17,50 m di larghezza. Presenta perciò una pianta quasi inscrivibile in un quadrato, giustificata dall’esistenza di due differenti assi visuali di scorrimento ortogonali fra loro: l’una da ovest a est, destinata ai fedeli che dal vestibolo raggiungevano l’altare, l’altra da nord a sud, riservata ai monaci che dal convento accedevano agli spazi ad essi dedicati per svolgere l’attività liturgica.

Tali percorsi sono evidenziati anche dalla disposizione degli elementi della pavimentazione, originaria pur restaurata, costituita da mattonelle in cotto che delimitano elementi in pietra: di fronte all’altare maggiore sono disposti a quadrato, avanti alle absidi delle cappelle laterali vi sono due rettangoli, per sottolinearne la funzione sacra, accentuata dalla presenza di tre gradini che ne distinguono altimetricamente la quota. Al centro dell’edificio, sotto la falsa cupola, destinata al coro dei monaci, la pavimentazione presenta un altro quadrato, affiancato lateralmente da due rettangoli che congiungono le cappelle alle navate laterali.

Nella costruzione della chiesa i suoi artefici hanno sfruttato più tipologie architettoniche, adeguandole alle proprie esigenze. Entrando nell’edificio apparentemente costituito da tre navate a sette campate, affiancate da  due navate laterali di tre campate, coperte a spioventi, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un impianto longitudinale, scandito da dodici colonne e quattro pilastri al cui interno la pavimentazione costituita da rettangoli con il lato breve verso l’altare centrale sembra indicarne l’andamento longitudinale, sottolineato anche dalla suddetta autonoma copertura a doppio spiovente delle due navate laterali, ma la falsa cupola centrale sorretta da un tamburo su trombe d’angolo poggianti su quattro pilastri cruciformi e rivestita da un tiburio rettangolare esterno, suggerisce un impianto cruciforme. Tale tipologia architettonica è stata considerata il primo esempio di pseudobasilica nelle Marche, una chiesa “a sala” per la sua caratteristica di presentare la navata centrale, coperta da una volta a botte, più elevata delle laterali, coperte da volte a crociera per supportare la spinta esercitata dalle pareti, prive di aperture per non indebolirne la struttura, della navata centrale. Al suo interno la luce, penetrando a taglio radente dalle monofore absidali a doppio strombo e dalle bifore presenti nel quadrato d’imposta e dalle trifore del tiburio, quasi a voler delineare gli spazi interni privi di decorazioni pittoriche, sortisce effetti cromatici presentandosi uniformemente diffusa, per adeguarsi a una concezione orientale, ma soprattutto anche per l’impossibilità, nell’architettura romanica, di indebolire con aperture i muri portanti. L’analisi della pianta sembra rimandare a modelli cluniacensi (l’impianto di Cluny II), ma le arcatelle pensili nelle pareti richiamano la tipologia cistercense. Mentre la collocazione cronologica tra San Claudio al Chienti e San Vittore alle Chiuse, induce ad ipotizzarne la fondazione ecclesiale tra il 1070 e il 1080.

Bibliografia: F. BRUGIAMOLINI, Arte e Archeologia al Conero, pp.23- 27, Ancona, 1987; C. CENTANNI, “Itinerario storico – culturale”, dalla banderuola a S. Maria di Loreto, Ancona, 1998, pp. 53 – 54; G. M. CLAUDI, Santa Maria di Portonovo, Sassoferrato, 1979; P. FAVOLE, Italia romanica. Le Marche, Milano, 1993, pp. 150 – 188; L. FERRETTI, Istoria di Ancona,ms. Bibl. Com. Ancona,p. 61; V. PIRANI, le chiese di Ancona, Osimo, 1998,pp. 143; pp. 169 – 170; p. 202; P. PIVA, Marche romaniche, D’Auria Editrice, Milano, 2003, pp. 85 -93; G. SARACINI, Notitie historiche della città di Ancona, Roma, 1675,p. 162;    S. SEBASTIANI, Itinerari nel parco del Conero, Ed. Lulu,  (2011).

Si ringrazia per il sostegno la Agenzia Generale di Ancona di AXA ASSICURAZIONI.